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Leonardo Sciascia

PIERO GUCCIONE

 

Degas diceva: « C’est plat comme la belle peinture!». Valéry commenta: «Divine platitude: point de trompe-l’œil; point d’empâtements, point d’enrochements, de lumières accrochées; point de contrastes intenses…».

 

Il primo incontro con la pittura di Guccione produce appunto l’impressione di una totale «platitude». E abituati come siamo ad una pittura che vuole essere altro (e magari tutto, tranne che pittura), un po’ stentiamo a riconoscerla, a riconquistarne la nozione. Altri valori e non valori sono stati ricercati e ammuinati nella pittura, in questi anni. Ma la bella pittura deve essere piatta, come voleva Degas (che la faceva); e la piattezza è divina - cioè peculiare alla pittura, essenza necessità ineffabilità - come commentava Valéry (che se ne intendeva). E qui vien fatto di dire che la parola «tableau» rende meglio, a connaturare la pittura alla piattezza, della parola «quadro»: quasi che allo «empâtement» sia impossibile sfuggire di fronte ad una tavola, mentre è possibile attraversare un quadro, che è poi soltanto un perimetro, una cornice.

Alla pittura di Guccione è dunque peculiare la smarrita - per altri - «platitude». Ma si direbbe che in lui non sia soltanto il recupero del valore più intrinseco della pittura, che corrisponda anche ad un’idea del mondo.

 

Nel saggio che Enzo Siciliano ha scritto su Guccione, molte considerazioni muovo da questa recisa affermazione del pittore: «Ho in odio la sensazione». E si potrebbe rovesciarla in questo: «Adoro la piattezza». Che non è da intendere nel senso della banalità quotidiana, della svogliante abitudine, dell’accidioso spegnersi del mondo intorno a noi; ma tutt’al contrario: come una fuga dalle sensazioni, e cioè dal tempo, per andare (e restare) oltre.  La negazione, insomma, del tempo come «ordine misurabile del movimento» - ed anche del movimento. A vantaggio dell’essere, dell’esistenza.

 

Questa negazione raggiunge e penetra un colore, vi si involge, vi si ferma.  L’azzurro. Del cielo, del mare. Che si aprono sterminati davanti a Scicli («offresi la città» dice l’Amico nel Dizionario topografico della Sicilia, «come sovrapposta a varii poggetti, tuttavia, nella maggior parte lievemente declive… dista tre miglia dalla spiaggia australe dell’isola») o si specchia nell’orrendo cofano di un’automobile. L’azzurro che Mallarmè invocava come fine, appunto, delle sensazioni: «Il roule par la brume, ancien et traverse / Ta native agonie ainsi qu’un glaive sûr; / Où fuir dans la révolte inutile et perverse? / Je suis hanté. L’Azur! L’Azur! L’Azur! L’Azur!»

 

Presentazione al Catalogo della mostra personale di P. G. al «Centro d’Arte 74», Palermo, dicembre 1973- gennaio 1974

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